Le cose che finiscono
Una mattina di un po' di anni fa, erano circa
le 11, stavo camminando per lo strettissimo corridoio dell’ultimo piano
mansardato dell’Università in piazza Sant'Alessandro. Era il dipartimento di
Anglistica. Cercavo di evitare gli studenti disseminati sul pavimento. Fissavo
le porte delle varie stanze dove i docenti avevano i loro studi e dove tenevano
gli esami. Dove tante volte ero stata a parlare, a contrattare, a esporre, a
spiegare, a pregare, a piagnucolare, a sperare. Era da una di queste che
uscivo dopo tre quarti d'ora. In mano avevo il libretto con sopra: nomenclatura dell’esame appena
sostenuto, data, voto e firma del docente.
Letteratura Inglese II.
Laurea Magistrale. Era stato anche piuttosto interessante perché era sul
romanzo “Jane Eyre” visto dal punto di vista di Bertha Mason, la moglie pazza e
piromane di Mr. Rochester (personaggio femminile per il quale, lo ammetto,
avevo sempre provato una certa simpatia). Ma a parte questo, era il mio ultimo
esame.
Il. Mio. Ultimo. Esame.
Ora, sapevo che dentro di me
sarebbe dovuto partire una specie di trip mental musicale in stile “Aquarius” del film “Hair” perché, finalmente,
dopo 5 lunghissimi anni avevo finito il mio corso di studi. Eppure qualcosa,
nel profondo, mi mordeva il cuore. Non volevo che finisse. Non volevo che
quella fosse la mia ultima volta in quel corridoio, in quell'edificio, in
quello stato mentale. Non presi l’ascensore e iniziai a scendere le scale con
gli occhi lucidi. Su quelle scale una volta mi ero seduta a piangere da sola
lanciando il libro “The Art of fiction” contro il muro perché ero stata
bocciata in modo umiliante a un esame a cui tenevo.
Attraversai i corridoi e
pensai che, in ordine sparso, mi sarebbero mancati: le giornate studio/ka**eggio in Sant’Ale a
Germanistica, le interrogazioni a suon di bacchettate sulle mani prima di uno
scritto, i mille aperitivi sfigatissimi a 3€, la cena di fine corso al
Kapuziner, lo spostarsi a metà giornata in piazza Vetra a prendere il sole e la
sera alle Colonne, gli Oreo secchi alle macchinette, il trovare sempre sempre
sempre qualcuno che conoscevi con cui fare quattro chiacchiere per passare un
pomeriggio uggioso o consolarsi per un esame schifoso, il passarci appunti e
informazioni alla buona (vendere gli appunti era distopia all’epoca!),
organizzare viaggi della speranza (Milano- Bolzano in sole 7 ore!) frequentare
solo il primo anno e poi passare gli altri ai tavoloni studio dove si faceva
tutto tranne che studiare o sui gradini di dipartimenti non propri (Slavistica)
non sapendo che quel ragazzo dai lunghi capelli e dallo sguardo da romanzo
russo con cui scherzavi e parlavi di conigli e musica sarebbe
diventato il tuo compagno di vita.
E
quando, nel mio piccolo, cerco di insegnare le lingue ai miei studenti, dietro
una regola grammaticale noiosa o a un’interrogazione strascicata, dove sia io
che loro in quel momento malediciamo il giorno che ci siamo incontrati, dietro,
c’è tutto questo.
Sto
decisamente invecchiando…
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